Oggi, di un anno fa, mi trovavo stipata nel sedile di un volo Ryanair, vicino una signora dell’Umbria che a metà tratta ha comperato un biglietto della lotteria. Senza vincere nulla. Quella speranza tradita aveva lo stesso profumo delle mie aspettative e gli stessi contorni delle mie paure.
Anche il mio era un gioco, per giunta.
L’amico di corso, futuro coinquilino, compagno di studio e di merende e una lunga lista di altre “diavolerie” che entrambi conosciamo bene, mi aveva detto qualcosa come “daje Martí, compila sto foglio che andiamo in Erasmus. Tocca che te smovi n’po”. Tutto con il tipico accento argentino, o jesino, che poi nel mio immaginario si somigliano.
Così, come da consiglio, mi sono smossa, e ho inserito dati, spuntato crocette varie, inventato motivazioni. Ho poi sperato di non vedere il mio nome in nessun elenco, di non dover affrontare comici colloqui in spagnolo e non dover pianificare esami interscambiabili.
Tutte cose che, in successione, sono avvenute una dietro l’altra.
Di lì a qualche mese ho fatto valigie, disfatto piani, ho guardato in tante direzioni, tutte sconosciute, scelto strade, tutte senza indicazioni. Mi sono sentita piccola quanto il ragno che ho ucciso nella stanza in cui ho dormito prima di trovare casa. Ho passato la notte sveglia con il terrore ce ne fossero altri.
Ho poi firmato un contratto senza avere la minima idea di cosa fosse scritto in minuscolo, alla fine di tutti quei fogli che parlavano di “gastos”, “dueño”, e “luz y gas”. Le cose di grande importanza hanno tutte una apparente misura minore e uno spazio riservato. L’ho imparato poi.
Nel mezzo ho infilato una piccola vacanza a Ibiza, con le amiche di sempre, perché non si dica che lo scambio non è formativo. Al ritorno ho camminato lungo sentieri impervi tracciati dal Rio Huecar, che tagliava di netto Cuenca, una piccola cittadina accovacciata nella terra autonoma di Castiglia-La Mancia. Qualche buon Dio ci ha regalato giornate di sole fino a metà novembre, maniche corte e caffè molto lontani dall’idea che noi italiani abbiamo, seduti a Calle Carreterìa. Quest’ultima era la via principale, teatro e sfondo della vita lenta e cadenzata di questi spagnoli, devoti alla siesta e amanti del tempo dilatato.
Nel primo pomeriggio il silenzio era quello tipico delle scene dei film, che ti prepara ad un attacco da parte degli zombie. E qualcuno potrei giurare di averlo visto, probabile superstite di una serata imbevuta di chupitos.
La fortuna ha fatto sì che, con un viaggio della speranza e due ore di autobus e una di Blablacar con gente più disparata, io potessi raggiungere Madrid e la mia migliore amica contemporaneamente. Il che è tutto un dire. E l’ho fatto nei giorni più bui, in quelli di passaggio, o in quelli di semplice e pura condivisione. Così come nella vita, da quando ho ricordo.
Potrei parlare tanto ancora, di Sara per esempio, una bomba ad orologeria di diciannove anni, specchio di quella che non sono stata io alla sua età, ma che ho provato ad essere con un poco di ritardo. Tanto per cambiare. Con lei è stato amore a prima vista, e quando ci penso mi sento leggera. La stessa sensazione che ho avuto durante le colazioni da sola, alla Blonda, nelle sveglie rimandate, nelle lezioni in una lingua straniera e durante le notti insonni che mi seguirebbero fino in capo al mondo.
Ho passato pomeriggi in biblioteca e, per fortuna, ho passato anche gli esami. Ho conosciuto nuove culture, nuove persone e nuovi gusti, nuove abitudini e sapori. Ho superato la paura di stare da sola e abbracciato la gioia disarmante di accogliere il diverso. Mi sono persa, sia per vicoli sconosciuti, sia in quelli che abitano dentro di me e mi sono ritrovata, in entrambi i casi.
Al mio compleanno ho mangiato paella, spento una candelina su Skype, sentito la mancanza di casa giungermi fino alle terminazioni nervose.
Mi sono fatta disegnare sulla pelle, nell’unico posto (a probabile rischio tetano) che Cuenca aveva da offrirmi, quello che avevo trovato il giorno in cui mi sono “spulciata” dentro. Ha gli stessi bordi sbafati e sbilenchi, come radici piantate nel profondo. E quando ho pianto, come una bimba, nell’unico modo che conosco, il mio amico prezioso ha barattato le lacrime con della birra: la soluzione ultima ad ogni male.
Quante parole nuove ho messo in valigia, dono prezioso, per poi scoprire che il linguaggio del cuore è universale. Per questo, spesso all’inizio, andavo a interpretazione. Come quella volta, che il professor Fernandez mi ha detto di fare un salto, qualche volta, al Potorro. Lo ha detto sottovoce, come si fa con le rivelazioni, con i segreti. E che fosse una confessione, lo avevo già capito, ma non avevo capito il perché.
Fino al momento in cui, passando davanti all’insegna mi è scattata una sorta di dubbio e curiosità insieme. Così ho chiesto spiegazioni al mio amico, madrelingua spagnolo.
Hai capito, il prof. Fernandez!
Martina Lanari